Islanda

Islanda - a caccia di aurore

Trovare compagnia disposta a raggiungere mete particolari come l'Islanda non è semplice. Se ti capita quindi l'occasione di partire con un folle gruppo di fotografi, disposti a soffrire fame e freddo pur di ottenere lo scatto perfetto, beh, non te la lasci scappare!

Stai guardando la versione pubblica del documento. Sei sei un compagno di viaggio puoi accedere ad alcune citazioni in più che per gli altri lettori non avrebbero alcun senso o interesse. Se vuoi puoi visualizzarli rispondendo alla seguente domanda:
Qual'è stata la migliore attrazione vista a Selfoss?   

L'aereo per l'Islanda parte da Monaco alle 12:35. Gli altri raggiungono l'aereporto in auto, poiché risiedono in provincia di Udine; io sono costretto a prendere un ulteriore aereo che da Roma mi porti fino a Monaco. Le compagnie sono diverse e se avessi perso la coincidenza (avevo un margine di 2 ore) la vacanza sarebbe finita lì e avrei buttato un bel po' di soldi. Altro problema: se mi avessero per la terza volta consegnato il bagaglio in ritardo mi sarei ritrovato in un territorio ostile senza l'adeguata attrezzatura. Decisi pertanto di partire con tutto il necessario addosso e nel bagaglio a mano (un piccolo zaino da alpinismo). Come se non bastasse era prevista una intensa nevicata che avrebbe potuto creare disagi.
L'Aquila era anche più fredda di Reykjavik, ma a Roma, in aereoporto, l'attesa si trasformò ben presto in sofferenza. Seduto in un anfratto fui costretto a togliere gli scarponi da trekking per raffreddare i piedi.

Volo in perfetto orario. Dopo essere riuscito a recuperare il bagaglio per le 11:11 mi dirigo verso il terminal 1 dove mi aspettano i miei compagni di viaggio che incontro di persona per la prima volta, a parte il solito Giuseppe che mi ha coinvolto anche in questa nuova avventura.
Hanno già lasciato i bagagli e ritirato le carte d'imbarco, hanno anche la mia, strano. Vado a lasciare anche il mio bagaglio e, ovviamente, mi chiedono come faccio ad avere già la carta d'imbarco. Spiego all'addetta che l'ha ritirata il mio amico per me e non fanno storie.
Il volo ritarda di circa mezz'ora, i nostri posti sono gli ultimi. È la prima volta che volo in coda, e non è il massimo. Una delle hostess ci sente parlare e ci chiede se siamo italiani, sembra compiaciuta di averlo capito, lo sarebbe stata ancor di più se avesse saputo che la conversazione più che italiana, si sarebbe detta carnica, tranne quando ero coinvolto anche io. Cerchiamo di dormire, il viaggio è mediamente lungo (4 ore).

Terra! Dall'oblò (difettoso) appannato dalla condensa creatasi dopo lo scioglimento del ghiaccio che si era accumulato all'interno si intravedevano le coste orientali dell'isola ghiacciata. I piedi bollono nelle scarpe da trekking, non vedo l'ora di scendere. Una volta a terra recuperiamo i bagagli, tutto ok, i passaggi critici sono stati superati con successo. Ritiriamo le chiavi del fuoristrada ed usciamo per la prima volta all'aperto....
Il sole filtra attraverso una strana foschia, nuvole? Non è ben chiaro. La terra messa a nudo dai cantieri è molto scura, la neve è sparsa un po' dappertutto ma senza ricoprire interamente il terreno. Stiamo per cominciare la verifica dei danni annotati sulla scheda dell'auto quando improvvisamente comincia a tirare vento forte e a cadere una neve gelata che ci colpisce rumorosamente gli abiti. Verifica rimandata, in fretta carichiamo i bagagli e saliamo in auto. Le condizioni di visibilità peggiorano notevolmente, ma dopo qualche minuto tutto cessa così come era cominciato... benvenuti in Islanda!!
Prima tappa: supermercato, dove facciamo provviste per la sera. A dire il vero molte scorte sono già nei bagagli, importate dall'Italia. Ci avviamo quindi verso il primo alloggio, a Grundarfjörður. Il viaggio è interminabile, aggravato dal fatto che la nostra giornata era cominciata circa alle 4 e mezza ora italiana. Le condizioni stradali sono buone ma comunque non possiamo mantenere medie elevate, anche per via dei limiti di velocità. Ad un certo punto siamo costretti a chiamare il gestore dell'alloggio per avvisare che saremmo arrivati oltre l'orario massimo previsto per il check-in. In veste di "interprete" devo occuparmi io della telefonata. Ho dei problemi con le chiamate in uscita, provo con il telefono del mio omonimo, squilla. Tutto si risolve, a parte il casello del tunnel sottomarino lisciato in favore di quello automatico per il quale non eravamo ovviamente abilitati.
Arriviamo a destinazione forse per le 22. C'è neve dappertutto, ci sistemiamo in un capannone dall'aspetto spartano, all'interno però troviamo un appartamento accogliente e gradevole anche nell'arredamento. Dopo aver ingurgitato 200gr di pasta a testa, cucinata nell'alloggio stesso, i fotografi escono, incoraggiati da un timido miglioramento del tempo. Io preferisco approfittarne per fare una doccia ed andare a dormire, non senza un senso generale di disagio, come se avessi fatto la scelta sbagliata. Invece i compagni di viaggio tornano ben presto e senza successo, il tempo non ha retto molto.

Partiamo in tarda mattinata, avvolti dalla nebbia, e passiamo davanti alle cascate Kirkjufellsfoss ed il rispettivo monte a punta Kirkjufells che però svela il suo segreto: il monte in realtà è lungo e stretto come lo scafo di una nave capovolta, lo si può vedere a punta solo in prossimità delle cascate. Ci fermiamo lungo il tragitto per un primo scatto in un paesaggio surreale. Dobbiamo raggiungere la spiaggia di Lóndrangar e siamo indecisi se aggirare le colline con la strada costiera o avventurarci nell'entroterra. Proviamo a lasciare la strada principale ma man mano che saliamo di quota il manto stradale sprofonda sempre più nel ghiaccio. Ad un certo punto decidiamo di tornare indietro .
Raggiungiamo finalmente la spiaggia passando a piedi per una proprietà probabilmente privata. Il mio omonimo subito si stacca dal gruppo, poi tutti rompono le righe a caccia di scatti. Giuseppe, ritrattista incallito, si avvicina ad una coppia di pecore appollaiate tra delle pietre e sulla soffice e folta erba islandese. Si allontanerà solo dopo aver messo in allerta il montone. Io ho con me la mia action cam, di foto ne farò poche: vista la compagnia, non ce ne sarà bisogno. Più tardi scendiamo sulla nera spiaggia di ciottoli. Io indosso una ridicola maschera da sci che sposta le gradazioni di colore verso l'arancio e rendendo ancor più surreale un paesaggio di per sè già inusuale. L'oceano spumeggiante arriva con le sue onde biancastre tra i ciottoli neri, resi lucidi e scurissimi dall'acqua, creando un contrasto affascianante, la risacca gioca poi con i sassi aggiungendo al fragore delle onde delle frequenze più sottili e gorgoglianti. Sullo sfondo le famose scogliere dalla strana forma torreggiante.
Ma la caccia allo scatto nasconde delle insidie che rende difficile, a volte letale, la professione del fotografo... ma in questo caso diciamo soltanto un po' bagnata....
[modalità DRAMMA On] Giuseppe viene sopraffatto da un'onda lunga e l'acqua marina gli entra nelle scarpe. Siamo costretti ad una veloce ritirata che ci porta ad asserragliarci all'interno di un capanno, al riparo dal vento e dalle onde. Il ferito viene adagiato all'interno mentre il mio omonimo risulta disperso, e con esso le chiavi dell'auto. È proprio all'interno del capanno che comincio a prendere qualche appunto sul viaggio. Mi tolgo i guanti e batto le mani per scaldare le dita intorpidite. Controllo nello zaino, avevo previdentemente aggiunto un paio di calzini... Giuseppe era salvo, ma prima avremmo dovuto raggiungere il fuoristrada, dove aveva lasciato gli stivali in gomma. Finalmente ci raggiunge anche Alessio. Usciamo ed affrontiamo di nuovo il vento forte che sferzava la costa impietosamente mal celando lo sciacquettio dei piedi negli scarponi fradici. Gli ultimi metri sono i più duri e prima di poter infilare i nuovi calzini bisogna far asciugare i piedi all'aria gelida. [modalità DRAMMA Off]
Ci spostiamo sulla scogliera che prima ammiravamo dalla spiaggia. Qui il vento è davvero forte, fortunatamente in direzione favorevole, verso l'interno, altrimenti alcune foto al limite della scogliera sarebbero davvero pericolose. Il colpo d'occhio è assoultamente fantastico. Mente i fotografi lottano contro l'aria per ottenere lo scatto voluto io mi sposto cautamente verso l'altro lato del promontorio assistendo ad uno spettacolo a me nuovo: sembrava che stesse nevicando, in maniera discontinua, ma i fiocchi bianchi andavano verso l'alto... sembravano venire dall'oceano cinquanta metri e oltre più in basso. Soltanto una volta ritornato alla postazione iniziale mi resi conto che si trattava della spuma creata dall'intensa attività delle onde che si infrangeva sulle rocce accumulandosi in grosse quantità in una specie di vasca naturale ai piedi della parete a picco. Una volta smossa questa aveva la capacità di rendere le scure rocce basaltiche bianche, almeno per pochi secondi.
Pranzo al sacco vicino l'auto e poi riprendiamo la strada verso casa. Altra sosta presso la chiesa nera di Búðir durante la quale ci coglie un'altra nevicata improvvisa di scarso un minuto. Lungo la strada del ritorno passiamo davanti allo Sneafells, il vulcano di accesso al centro della terra, almeno secondo Jules Verne. Prima di rientrare passiamo a fare scorte in un minimarket e poi all'adiacente Vinbudin per prendere qualche birra e scoprire che la commessa parla italiano. Il tempo fa schifo, ma la ragazza ci dice che può essere molto peggio. Mangiamo di nuovo 200gr di pasta e andiamo a dormire qualche ora. Per me si ripropone il dilemma: passare la notte fuori ad aspettare l'aurora nonostante il tempo oppure attendere un'occasione migliore? Alle 3 di mattina vengo svegliato da una notifica di un'applicazione dedicata al monitoraggio dell'attività solare. L'indice Kp è a 4... decido di unirmi ai fotografi, la neve ha anche cessato di cadere.

L'azione è concitata: metto biancheria tecnica, pile, piumino e guscio antivento e antipioggia, maschera antivento per il viso e tengo il pigiama sotto i pantaloni; per proteggere gli occhi dal vento ho degli occhiali da cantiere. Entriamo nel fuoristrada, la sensazione è molto strana: sembra un blitz o una missione in incognito, decisamente niente di familiare per me. Raggiungiamo le piccole cascate Kirkjufellsfoss da una strada secondaria che però presenta presto una sbarra di metallo. Scendiamo e proseguiamo a piedi. I fotografi hanno una torcia frontale io ho solo una classica torcia a led in tasca di cui non conosco minimamente l'autonomia, per il momento seguo gli altri.
Raggiungiamo la parte alta delle cascate. Ben presto cominciamo ad intravedere un debole bagliore verde, qualcuno ancora non ha posizionato il cavalletto che la fascia verde comincia a piegarsi ed intensificarsi formando un foulard fluorescente. Poi lentamente tutto scompare. Mentre i miei compagni di viaggio si spostano continuamente per piazzare e poi togliere di nuovo i cavalletti io decido di tornare in auto, ritenendomi soddisfatto per questa prima sera e con l'intenzione di dormire un po', ma non mi riesce, anche perché fa freddo. In lontananza vedo le luci spostarsi, ruotare, correre, sparire e poi ricomparire in una frenesia per me affascinante ma anche incomprensibile. Ad un certo punto le vedo dirigersi verso l'auto dove restiamo in attesa dell'alba... che ovviamente darà spunti per altre foto.
Quando l'albedo soddisfa le esigenze dei paesaggisti ci dirigiamo in auto, questa volta lungo la strada principale, fino alla parte bassa della cascata. Sono io alla guida, un po' impacciato a causa del cambio automatico. Per consentire degli scatti migliori tolgo il fuoristrada dalla visuale andando oltre la collina. Aspetto parecchio senza riuscire a dormire granché. Alle 9 il sole è già abbastanza alto, l'effetto alba è andato da un pezzo, non riesco ad immaginare cosa stiano facendo gli altri, chiamo quindi Giuseppe per avere aggiornamenti. Scendo giù a prenderli, torniamo quindi agli alloggi: colazione rapida, richiudiamo in fretta le valigie e via... siamo già in ritardo con la tabella di marcia.

Facciamo il viaggio a ritroso verso la capitale. La luce del giorno ci mostra un paesaggio surreale fatto di scurissimi blocchi di roccia basaltica accatastati disordinatamente, come se fossero piovuti dal cielo, e con uno strato di neve che dava l'impressione che ci stessimo muovendo in una gigantesca torta al cioccolato ricoperta di panna.
Lungo la strada tentiamo una deviazione per quella che doveva essere una piana rappresentativa dell'attività vulcanica islandese.... forse a causa della neve, ma non sembrava un posto particolarmente entusiasmante, fatto sta che quasi subito rischiamo di impantanarci. Qualche manovra classica e battiamo una poco dignitosa ritirata. Ripartiamo per la destinazione Thingvellir, questa volta prendendo correttamente il casello all'uscita del tunnel suboceanico

Deviamo verso Thingvellir, dove la faglia di Silfra segna il confine tra la placca euroasiatica e quella nordamericana. Man mano che ci addentriamo nell'entroterra, salendo anche di quota, il tempo peggiora e siamo investiti da una bufera di neve che rende l'esperienza di guida qualcosa di completamente nuovo. I paletti gialli che segnano il limite della carreggiata sono l'unico punto di riferimento nel bianco assoluto che ci circonda. Come al solito non bisogna aspettare molto prima che la bufera svanisca.
Ci stiamo avvicinando al punto di interesse, e lo si capisce anche dal traffico decisamente più intenso di quello a cui ci eravamo abituati, quando ad un tratto vediamo qualcosa tagliare con una traiettoria parabolica il lungo rettilineo di fronte a noi. Vediamo per un attimo illuminarsi gli stop delle auto che ci precedono. Man mano che ci avviciniamo è sempre più evidente che un gruppo di ragazzi in motoslitta stia ingannando il tempo saltando il manto stradale da una parte all'altra. Ci fermiamo per scattare qualche foto e fare qualche video.

Finalmente a destinazione ci ritroviamo circondati da autobus e navette che hanno scaricato turisti di ogni nazionalità e che affollano la stretta e scivolosa passerella in metallo che conduce attraverso una delle fenditure della crosta terrestre che l'attività tettonica ha creato nel tempo. Siamo in una grande valle, sulla faglia di Silfra, un posto unico al mondo, almeno per quello che simboleggia. Ci tenevo molto a calcare questa terra di mezzo. Poi la perversione dell'arrampicatore della domenica prende il sopravvento e mi faccio fare una foto da pirla aggrappandomi al tetto di un grottino formatosi nel basalto. Ma i viaggi di piacere sono fatti anche di questo.
Purtroppo siamo in ritardo rispetto al programma prefissato, abbandoniamo l'idea di raggiungere la piccola cascata alla fine del sentiero e torniamo indietro imbattendoci in uno smartphone caduto nella neve. Ha un obiettivo fisheye ancorato sull'originale ed è sbloccato. Appare subito evidente dagli idiomi sul video che si tratta di qualcosa di molto giapponese. Accediamo al registro chiamate per vedere il contatto più recente, una tizia giapponese che però sembra risiedere in inghilterra. In qualità di "interprete" tocca ovviamente a me tentare la chiamata sperando che i due fossero entrambi in islanda. Non capiamo perché ma la chiamata non riesce a partire, un po' come successe a me il primo giorno lasciato l'aereporto, oltretutto con tutte le scritte in giapponese è difficile anche capire cosa si sta facendo. Proviamo più volte senza successo finché non sopraggiunge un addetto al parco ed affidiamo a lui il telefono.

Dopo pochi minuti di macchina siamo a Geisyr, un altro posto turistico, qui la gente è veramente numerosa. Il posto è accessibile liberamente. Se non fosse per la folla questo sarebbe un altro di quegli ambienti surreali tipici di questa terra, con l'acqua calda che scorre fumante sulla roccia ricca di solfati e dalla colorazione molto variegata con le sue striature gialle e arancioni; pozze di acqua azzurra e opaca che ribolle mentre cadono fiocchi di neve. E in fondo il geyser, la star, circondata da una recinzione che tiene i turisti a distanza di sicurezza. Un cratere fumante di un paio di metri di diametro che con una buona regolarità spruzza in aria l'acqua calda sbuffando come una enorme balena di pietra. Restiamo lì in attesa, come molti altri. La luce, i vapori, la neve e la foschia generale spengono subito l'entusiasmo dei fotografi precludendo ogni speranza per uno scatto spettacolare. Io faccio qualche filmato. La star si concede ogni 4 minuti circa, l'acqua comincia ad avere qualche gorgoglio, poi improvvisamente si abbassa di qualche decina di centimetri per gonfiarsi in una grande bolla azzurra che esplode verso l'alto. A volte perde il ritmo ed erutta per due volte consecutive, con intensità differente, in questo caso poi si concede una pausa maggiore di 7,8 minuti. Terminati filmati e statistiche ci avviamo per l'ultima tappa turistica della giornata: le cascate d'oro.

Arriviamo sull'altopiano scavato dal fiume che origina le Gullfoss, delle rumorose cascate dall'invidiabile portata d'acqua. Davanti i negozi di souvenir ci sono dei mezzi che sembrano quasi usciti dal film di Mad Max o scappati da un aereoporto, tutti accomunati da enormi pneumatici chiodati. La neve infatti abbonda qui e con il sole che ormai va tramontando tutto si appiattisce ed i colori si smorzano. In quel momento le avrei chiamate Bluefoss, a causa di una generale predominanza del blu sugli altri colori, mi sembrava di scorgerlo anche nel bianco della neve...o stavo semplicemente morendo assiderato?
La parte più bassa, dove sarebbe stato possibile ammirare l'acqua che si getta in uno stretto e profondo canyon, non è accessible a causa della neve. Per scaldarmi risalgo la scala che porta alla parte superiore e faccio una corsa fino ad un belvedere che sovrasta la sezione chiusa. Non posso far a meno di ammirare la potenza dell'acqua con un certo timore reverenziale ingiustificatamente più grande rispetto a quello provato osservando le cascate del Niagara, forse a causa dell'ambiente più selvaggio e di quello scuro e angusto canale scavato nella roccia che inghiotte tutta quella massa liquida e gelida. Ora fa davvero freddo, ho le estremità delle dita intorpidite ed il vento si fa sentire, le cascate sono belle, ghiacciate in più punti ma non vedo l'ora di andar via.

Comincia un viaggio interminabile verso Vik a seguito di due giorni senza sosta. Il mio omonimo è alla guida da ore ma non sembra intenzionato a lasciare il volante. Il problema è che sono stanco anche io perché non riesco a prendere sonno, quindi scambiarci non avrebbe neanche troppo senso. Non sono tranquillissimo perché mi ricorda troppo qualcosa di già visto sulle coste del sud della Francia, però lo stile di guida mi sembra molto assennato. Anche in questo caso siamo costretti a chiamare il gestore dell'alloggio perché prevediamo di arrivare addirittura per le 22.
Ci fermiamo per fare rifornimento e ne approfittiamo per cenare nell'area di servizio, la solita caciara per capire, prima noi poi la commessa, cosa vogliamo mangiare, e alla fine ci portano dei panini semicarbonizzati, soprattutto il mio, sarà un caso che si chiami italianamente "carbonara"? La sosta ci fa ritardare ulteriormente, arriviamo distrutti per le 22:30 circa introducendoci nell'oscurità tra attrezzature agricole di varia natura, ignari delle meraviglie che ci circondano. È l'unico caso in cui non è possibile prenotare online, pertanto Alessio (la "guida") aveva cambiato l'importo esatto in valuta locale. Scendemmo insieme nella tormenta di neve per raggiungere la piccola reception e farci consegnare le chiavi del cottage.
Entrare negli alloggi, in vacanza, di solito non prevede formare una catena umana che gridando per sovrastare il rumore del vento si passa i bagagli per ridurre al minimo il tempo necessario all'operazione. La neve negli occhi, la porta che si apre con difficoltà a causa della neve ormai dura accumulatasi sulla soglia, il vento che tende a richiuderla e a buttare i fiocchi gelati all'interno. Ma alla fine l'ultimo sforzo finisce e siamo tutti dentro.
Il posto è accogliente, caldo nonostante i numerosi spifferi da baita di legno, un leggero profumo di abete ti dà la sensazione di essere in montagna più che al mare. Sarebbe anche confortevole... se fossimo in due e senza tutta quell'attrezzatura... i bagagli hanno invaso tutto il pavimento, abbiamo difficoltà anche a muoverci. Più che altro ci accampiamo... mangiamo spartanamente qualcosa e poi crolliamo. Finalmente una dormita decente.

Poiché il viaggio era nato da esigenze di tipo fotografico, presentatomi già pronto, il mio contributo fu piuttosto limitato, la sosta sulla faglia di Silfra credo sia infatti stata la mia unica richiesta. Per il resto avevo scorso velocemente e accettato senza riserva tutti i luoghi di interesse segnalati. In particolare di Vík ricordavo soltanto che ci fosse una spiaggia nera.
In tarda mattinata ci alziamo e ci dirigiamo verso la spiaggia a piedi, tanto è vicina, leggo un cartello che recita: "warning to big waves", non sono esperto di mare, tantomento di oceano, e non ho idea di cosa significhi... di certo non intendo fare il bagno. Soltanto dopo alcune decine di metri risulta già evidente che quella spiaggia ha qualcosa di speciale.... Accendo pertanto l'action cam e proseguo lungo il sentiero innevato. Poi lo sfrigolìo della neve lascia posto a quello dei ciottoli neri della spiaggia. Ho l'oceano sulla destra mentre sulla sinistra c'è una ripida scogliera di basalto infestata da gabbiani alla cui base ci sono delle formazioni di colonne di pietra dalla sezione poligonale di mediamente 5 o 6 lati che ricordano molto il più regolare lastricato delle Giant's Causeway nel nord dell'Irlanda. Le onde si infrangono spumeggianti su uno sperone di queste colonne di pietra che si protende verso l'oceano creando un contrasto tra il bianco della spuma, il nero pece del basalto bagnato ed il bianco della neve che, insieme al grigiume del cielo e dell'oceano, rendono l'atmosfera surreale. Non riesco però a trattenere un gemito di meraviglia quando, inoltrandomi nella spiaggia, da dietro lo sperone vedo comparire in lontananza un faraglione di cui ignoravo o avevo dimenticato l'esistenza: una torre di 56 metri, dalla sezione abbastanza costante da donargli un inquietante aspetto fallico, si erge maestosamente dalle acque impetuose a non molta distanza dalla costa. Subito dopo compare un secondo faraglione dalla più classica forma tozza (n.d.a.: quello che non vedevamo però, è che questo ci nascondeva alla vista altri due faraglioni con cui condivide la base, ma che da quella prospettiva ci comparivano come un blocco unico) nel complesso sembra di essere sul set di un film di fantascienza.
Il faraglione caratteristico è denominato Háidrangur, la cui sommità è stata conquistata per la prima volta da Eldeyjar-Hjalti nel 1893. Mentre riprendo affascinato la visuale, un'onda lunga raggiunge di soppiatto la battigia per poi avanzare rapidamente verso l'interno. Sento delle grida e vedo i turisti sparsi sulla spiaggia indietreggiare gridando. Poi l'acqua avanza velocemente anche verso di me, nonostante pensassi di essere sufficientemente distante mi ritrovo anche ad ingaggiare una rapida ritirata, mantengo comunque l'action-cam diretta verso l'oceano. Un ragazzo è rimasto indietro, viene raggiunto e abbattuto dall'onda che, una volta a terra, lo sommerge quasi completamente. Improvvisamente capisco il senso del cartello visto poc'anzi.
Con la dovuta cautela mi avvicino alle colonne di roccia, teatro del precedente dramma, e mi arrampico su quelle più basse per mettermi al sicuro dall'acqua, almeno parzialmente. Attendo pazientemente con la mia action-cam l'arrivo di una nuova onda lunga ma nessuna riesce a replicare la forza della precedente. Dopo qualche pericoloso scatto ci spostiamo alla cascata Skogafoss.

Per fare il filmato mi avvicino molto alla cascata, l'acqua nebulizzata è tale che sembra che piova, mi bagno completamente, fermata la ripresa torno velocemente indietro. Fortunatamente le nuvole si sono diradate e mi asciugo completamente in pochi minuti. Stare lì a scaldarsi al sole è davvero piacevole. Non contento, mentre i miei compagni di viaggio sono impegnati a scattare foto da National Geographic, decido di inerpicarmi sugli innumerevoli e scivolosi gradini che portano al belvedere in cima alla cascata. Nel frattempo le condizioni metereologiche peggiorano e dopo pochi minuti che sono arrivato in cima, comincia a tirare vento forte, anche perché qui si è più esposti. Osservo i gabbiani restare in surplace sfruttando il vento che risale la cascata e modellare la geometria delle ali al variare dell'intensità del vento. Poi vedo l'acqua nebulizzata invertire la direzione e risalire la cascata creando dei baffi d'acqua. La forti raffiche di vento mi costringono a tenermi al passamano, nonostante l'attrezzatura, le piccole aree del viso rimaste scoperte vengono sferzate dalla neve gelata che si infila anche sotto gli occhiali. Decido di ricendere, a tratti è difficile anche respirare.
Ci spostiamo a Seljalandsfoss. La luce non è delle migliori. Raggiungo un basso ma ripido belvedere. Riscendendo i piedi non hanno alcun grip sui gradini pieni di neve gelata, arrivo giù scivolando sui passamano e infradiciando i guanti.
Solo qualche centinaio di metri più avanti c'è un'altra piccola cascata, Gljúfrabúi, sulla quale bisognerebbe chiedere ad un islandese perché non abbia il suffisso -foss come tutte le altre cascate, ma la sua peculiarità sta nel fatto che è nascosta nella roccia: l'acqua cade in un cortile naturale stretto ed alto, al quale si accede da una stretta fenditura creatasi nella roccia che la nasconde. La cosa mi sembra estremamente interessante, così mentre Giuseppe e Fabio preferiscono restare in auto per recuperare un po' di calore corporeo, io seguo Alessio e Flavio con la mia action-cam. Ho lo svantaggio di non indossare stivali di gomma e un poncho impermeabile come loro, quindi resto indietro e in caso di impraticabilità sarò costretto a tornare indietro. Per raggiungere il posto bisogna attraversare quello che sembra un terreno privato, ci sono però delle strutture ricettive, anche se evidentemente chiuse. Per praticità indosso la action-cam sul supporto per la testa, peccato che l'obiettivo si bagna quasi subito catturando delle immagini fortemente aberrate.
La fenditura è percorsa da un ruscello e pertanto bisogna stare attenti a dove mettere i piedi ma comunque mi aspettavo di peggio, raggiungiamo senza difficoltà l'interno. Lo spettacolo è entusiasmante: pareti di roccia a picco sulle quali cresce muschio verdissimo, un enorme blocco di pietra arreda l'interno. Potrei restare ore ad ammirare quel posto ma mi sto rapidamente coprendo di acqua e non ho nè guanti nè pantaloni impermeabili. Faccio un giro veloce per avere una ripresa saltando sul masso centrale dopodiché mi avvio velocemente verso l'uscita.
Durante il tragitto di ritorno verso gli alloggi, siccome c'è ancora luce ed abbiamo tempo, decidiamo di fare un sopralluogo ad un sito un po' particolare: il luogo dell'atterraggio di emergenza di un vecchio aereo militare abbandonato poi sul posto e di cui resta ormai la sola carlinga, depredata di tutto il depredabile e profanata perfino da Bear Grylls che è riuscito ad accendere un fuoco in un posto dove non c'è l'ombra di un albero per decine e decine di chilometri. Avevamo come riferimento semplicemente un incrocio visto su streetview, ma nessuna sicurezza che portasse all'aereo. Il sentiero era stretto e fangoso e portava nel nulla: una sconfinata arida pianura, fatta di dune di terra nera, rese grigie a causa del misto tra terra e neve e costellate di pietre scure, tanto che sembrano uscire da un vecchio televisore analogico privo di segnale video. La strada scompare, ci muoviamo a casaccio cercando di scorgere in lontananza la vecchia carlinga grigia, ben mimetizzata nell'ambiente circostante. Qualcuno dice di aver visto qualcosa, ma un piccolo torrente divide nettamente la spiaggia, capiamo che il vero ingresso per il sito si trova più avanti, sulla strada asfaltata. Dopo un rapido consulto valutiamo come non sicuro il tentativo di guadare il ruscello che ha scavato dei grossi argini nella terra. Torniamo indietro e raggiungiamo l'alloggio.
Il gestore del cottage ci raggiunge per darci la ricevuta e saldare il conto, diffondendo un caratteristico aroma di ovino. Dopo essersi meravigliato per l'ingombro quasi totale della stanza causa bagagli, si trattiene per parlarci della straordinaria connessione Wi-Fi di cui disponiamo (effettivamente era velocissima) sia in downlink che in uplink (ottimo per caricare le foto su server remoti), e del fatto uno di quei cottage gli renda l'equivalente di 200 pecore. Poi gli chiediamo cosa ne pensa del tempo e se secondo lui quella notte saremmo riusciti a vedere l'aurora. In Islanda diciamo che "L'uomo del meteo dice cose false" ci racconta, facendoci capire che neanche vivendoci è possibile comprendere il clima di quest'Isola. Poi ci dice che appena qualche giorno prima del nostro arrivo nel nostro cottage c'erano stati due francesi e che avevano lasciato sul guestbook la testimonianza di un'aurora assolutamente unica: l'intensità era stata tale da rendere visibili ben quattro colori differenti (verde, rosso, giallo e viola) e la luce era quasi accecante. Ho visto migliaia di aurore continua ma mai una così forte. Questa non fu una bella notizia in realtà.... ci lasciò perplessi, in bilico tra speranza per i giorni a venire e l'amarezza per il tempismo mancato.

Ci prepariamo ed usciamo di nuovo a caccia del DC3, il tempo è migliorato ma continua a nevicare. Prima di abbandonare la connessione WiFi mi scarico un'applicazione per il tracking GPS, se ci dovessimo perdere in mezzo al nulla almeno avremmo una traccia del percorso fatto. Questa volta proseguiamo sulla strada principale, superiamo il torrente e lasciamo l'asfalto all'incrocio successivo. Si scende un po', la neve ha reso tutto bianco e uniforme come temevamo, si intuisce però un manto stradale che seguiamo, subito ci si para davanti una zona circolare di terreno scomposto, dove sembra che la neve abbia ricoperto numerose tracce di pneumatico. Dando l'impressione di un ottimo posto dove restare impantanati lo aggiriamo. A parte questa prima parte, il resto del percorso sembra piuttosto tranquillo e, sorpresa tanto gradita quanto inaspettata, il percorso è largo e segnato da dei paletti. Evidentemente è un punto di interesse molto più frequentato di quanto pensassimo. Lentamente avanziamo nella neve che cade incessantemente, quando ci avviciniamo al punto segnato dal GPS cominciamo a scrutare, per quanto possibile, l'oscurità. Facciamo anche qualche cambio di direzione con il fuoristrada per illuminare una porzione più estesa di terreno. Ma la manovra si rende alquanto inutile, la strada punta diritta verso il relitto. Il cielo è ancora coperto ma la neve si è placata. Scendiamo per alcuni scatti in notturna, ha il suo fascino vedere i fotografi a lavoro mentre tentano freneticamente di impostare le proprie apparecchiatura senza interferire l'un l'altro e applicare trucchi del mestiere con le torce elettriche, teoria ma anche un po' di manualità. La luna, da qualche giorno calante, ogni tanto si affaccia tra le veloci nubi scure rischiarando la pianura arida. Ancora una volta ho l'impressione di essere un'astronauta o di essere in un film di sci-fi, e quell'ammasso di metallo non è altro che la nostra navicella che si è schiantata su questo pianeta inospitale, scuro e brullo come la luna, ventoso e irrequieto come Giove.
Soddisfatti della prima sessione di foto e fiaccati dal freddo rientriamo in auto e ci posizioniamo a sud dell'aereo, in modo da essere già pronti per l'aurora che però non sembra volerne sapere. L'attesa è lunga e frustrante, restiamo nell'abitacolo decisi a fare i turni ma in realtà siamo tutti con la testa attaccata al finestrino, a parte io che sono seduto sul posto centrale del sedile posteriore. I vetri sono appannati internamente dalla condensa e fuori sporchi di acqua e neve che scivolano sul cristallo, ma Giuseppe sembra aver sviluppato una particolare sensibilità al verde ed avverte qualcosa... usciamo tutti di corsa, effettivamente nel cielo si intravede un pallido bagliore verdastro, ricomincia la frenesia dei preparativi.
L'aurora è debole, soltanto lunghe esposizioni garantiranno un verde acceso. Prima di andar via, una volta sicuro di non invadere la scena, prendo la mia torcia elettrica e la action cam e faccio un giro intorno all'aereo e nella carlinga. Come se avessimo preso accordi con il tempo, appena saliamo in auto la tregua accordataci termina e ricomincia a nevicare, ma il team non è ancora soddisfatto, ci dirigiamo verso la cascata Skogafoss. Una lingua verde sovrasta l'alta cascata, io preferisco restare in auto. Il primo a tornare in auto è Fabio, beviamo del the e sgranocchiamo qualche snack. Soltanto verso le 4 riprendiamo la via di casa.

Ci alziamo solo a metà mattinata, facciamo colazione con un terribile pane speziato reso peggiore dal tostapane e poi torniamo di nuovo sulla spiaggia nera. La neve caduta abbondantemente durante la notte trasforma il paesaggio che ci appare piuttosto diverso da quello del giorno precedente: oltre a rendere il suono dell'oceano ed il garrito dei gabbiani leggermente ovattati, il contrasto con il nero profondo della roccia e della sabbia ci proietta in un mondo fantastico. Purtroppo l'oceano impetuoso continua a mietere vittime: un'onda prende di sorpresa Alessio proprio mentre sta cambiando l'obiettivo, uno dei due gli scivola dalle mani e viene travolto dall'acqua salata rendendolo inutilizzabile.
Verso mezzo giorno e mezzo ricarichiamo l'auto, lo spazio sembra sempre minore... torniamo al Vikurskali, a Vik, per mangiare e per cambiare l'anabbagliante che ci aveva abbandonato già nella notte. Mentre mangiamo del gulash e degli hamburgers coperti con un uovo ad occhio di bue sentiamo di parlare in italiano. Infatti poco dopo una tipa viene al nostro tavolo e si presenta come organizzatrice di spedizioni fotografiche e che pertanto viene spesso in Islanda, ci fa qualche domanda e ci dice che lei e il suo gruppo hanno passato la notte scorsa alla laguna glaciale godendosi un bello spettacolo, ci parla poi di una seconda laguna, più piccola di Jokulsarlon, Fjallarl, di cui Alessio aveva letto qualcosa. Le diciamo della nostra veglia alle spoglie del DC3 e poi ci informa che lì andranno la sera stessa, praticamente ci siamo scambiati le posizioni.
Ci avviamo speranzosi anche noi verso la tappa più lontana del nostro itinerario. Durante il viaggio come al solito si alternano calma, vento e nevicate. Nel tratto finale verso Jokulsarlon la neve diventa più rada e comincia a scoprirsi un po' di vegetazione. Numerose sono le lingue di ghiaccio azzurro, vecchio e duro, che scendono dal grande ghiacciaio Vatnajökull. Siamo quasi a destinazione quando un cartello attira la nostra attenzione, é piccolo e apparentemente insignificante, ma c'è scritto sopra Fjallarl! Lasciamo quindi la strada principale per dare un'occhiata.
Il ghiaccio è molto vicino alla strada, infatti non ci vuole molto per raggiungere una piccola radura dove lasciare l'auto. Non siamo soli. Un paio di auto sono già qui. Ci vestiamo e usciamo. Bisogna scendere lungo una collina per raggiungere il letto ghiacciato della laguna. Non si tratta però di un lago ghiacciato, piatto e liscio: il ghiacciaio lascia cadere dei blocchi di varie dimensioni nella laguna che spostandosi rompono e increspano i lastroni di ghiaccio che si formano in continuazione.
Man mano che ci avviciniamo a quegli enormi blocchi di ghiaccio azzurro sale uno strano fascino ma anche una certa tensione. Non sappiamo quanto sia spesso il ghiaccio e come ci si debba muovere in questi ambienti, soprattutto in questo periodo di disgelo. Ciò che attira subito la nostra attenzione è un ammasso azzurro decisamente più grande di tutti gli altri blocchi di ghiaccio e dalla forma decisamente accattivante che richiama le forme tipiche della più sinuosa architettura moderna. Sembra più una scultura che un prodotto della natura. Ci sono alcune persone lì vicino ma è necessario spingersi piuttosto all'interno, decido di passare soltanto lì dove vedo le impronte di recenti visitatori.
La neve copre e nasconde il ghiaccio che fuoriesce con speroni, lame e crepe. Vedo un buco profondo, mi avvicino per quardarci dentro: è una cavità di ghiaccio, all'interno c'è altro ghiaccio, probabilmente è molto spesso, ma potrebbe anche far parte di un blocco incastrato lì. Camminiamo in maniera disordinata, ci dividiamo, ci incontriamo di nuovo, qualcuno gira da un lato, chi dall'altro, poi torna sui propri passi. Mi ritrovo dietro ad Alessio che, con l'attrezzatura fotografica in mano, decide di fare qualche passo indietro ed aggirare il blocco di ghiaccio che stavamo scavalcando. Io invece proseguo... mi si presenta davanti un piccolo scivolo di ghiaccio. Con molta cautela mi accuccio sul ciglio per tentare di scivolare giù sugli scarponi ma sono privo di ramponcini. Il distacco della gomma dal ghiaccio azzurro è improvviso: perdo l'equilibrio all'indietro e scendo giù senza controllo scivolando su un fianco fino a fermarmi sulla neve sottostante. Finalmente raggiungiamo l'enorme blocco che aveva attirato la nostra attenzione. Incontriamo una coppia di turisti che sta tornando indietro. Dopo aver ammirato e fotografato quella specie di iceberg ne approfittiamo per scattare forse la prima foto di gruppo, ed è buffo come i fotografi risultino impacciati nell'impostare l'autoscatto, probabilmente mai usato prima di allora sulla reflex. Torniamo quindi all'auto.
Ci spostiamo per una breve sosta a Jokulsarlon, l'attrazione principale, ma soltanto per un rapido sopralluogo. L'alta marea sta facendo defluire l'acqua dall'oceano verso la laguna attraverso il fiume più corto dell'isola e mettendo in rotazione un immenso blocco di ghiaccio. L'acqua è liquida per un centinaio di metri dentro la laguna, poi c'è una linea, dove sostano affiancati numerosi gabbiani, che separa nettamente l'acqua dal ghiaccio che si estende per tutto il resto della laguna. Diverse foche si immergono per poi riemergere in altri piccoli specchi d'acqua formatisi fra i ghiacci.

Raggiungiamo la Guest House Skyrhusid dove ci sistemiamo in due triple. Io e Giuseppe siamo da soli e ci avanza un letto che usiamo come divano per gli ospiti. "Ceniamo" infatti da noi consumando le baguettes prese a Vik, l'inesauribile speck, tonno ai fagioli e delle terribili ed insipide insalate in scatola a base di piselli, carote e altri ortaggi. Riesco a non vomitare, non credo di essere sazio ma la fame mi è passata di sicuro.
Ci concediamo qualche ora di relax prima di tornare alla laguna di Fjallarl nella speranza di immortalare l'aurora sul ghiacciaio. Quando raggiungiamo il parcheggio siamo soli. Cominciamo a scrutare il cielo ma non si vede nulla. Poco dopo sopraggiunge una seconda auto. È una coppia di giapponesi, o almeno abbiamo l'impressione che in auto sia rimasta una seconda persona quando il signore di mezza età ci raggiunge per fare varie domande. Sospetta di un bagliore all'orizzonte ma la macchina fotografica lo smentisce... eppure più tardi sarà proprio lì a comparire l'aurora. Discutiamo sulla localizzazione del nord, poi mi fa qualche domanda sulla laguna glaciale e se ne torna in auto.
I fotografi scaricano l'attrezzatura, anche io mi preparo. Metto in tasca la torcia elettrica per ogni evenienza, ma anche perché so che tornerò su prima degli altri. Ci avviamo sul sentiero, il panorama buio e la scarsa visibilità in generale mi costringono a tenere lo sguardo basso sul terreno, e vedo un cartello, piccolo e quasi adagiato per terra a dire il vero, che non avevo notato nel pomeriggio: ci sono varie indicazioni e raccomandazioni, tra le quali un segnale di pericolo con delle onde stilizzate e una mano che chiede aiuto... quella che prima era una sana cautela adesso diventa una specie di paranoia. Faccio vedere il cartello a chi mi segue, poi proseguiamo fino ai ghiacci. La notte rende tutto diverso, i punti di riferimento scompaiono, sembra di essere lì per la prima volta, e la cosa un po' mi innervosisce. Cammino dietro un compagno senza allontanarmi troppo in modo da vedere dove metto i piedi ma non troppo vicino per distribuire il peso dei nostri passi su una superficie più ampia. Una volta addentratici nella laguna i fotografi si sparpagliano per non interferire l'uno con gli altri. Io sono costretto a seguirne uno per motivi di luce, mi avvicino quindi a Giuseppe a attendo che piazzi il cavalletto.
Anche se ci si scambia qualche parola il silenzio è totale, la concentrazione, l'attesa, l'agguato. Il vento è assente ed il cielo è sereno. Poi improvvisamente il silenzio è rotto da un rumore forte e secco, mi volto e vedo la luce di Alessio dietro un blocco. Resto un momento attonito nel tentativo di figurarmi possibile che quel suono lo abbia prodotto lui, ma so che non è così. Restiamo qualche minuto in posizione ad osservare il bagliore nella speranza che si tramuti in aurora, poi si sente di nuovo un tonfo e chiaramente un breve e profondo gorgoglio, come se qualcosa di grosso avesse cambiato posizione roteando nelle acque sottostanti. — Avete sentito anche voi? — si lamenta Alessio qualche metro indietro — non so cosa fosse ma non mi è piaciuto per niente! — aggiunge.
Decidiamo di comune accordo di rimettere i piedi sulla terra ferma, anche se probabilmente non correvamo nessun rischio in più rispetto al pomeriggio, in quanto la temperatura leggermente al di sotto dello zero e la mancanza dell'irraggiamento solare non avrebbero favorito certo il disgelo del ghiaccio. Ma in fondo eravamo lì solo per fare delle foto con l'aurora boreale.... trenta o quaranta metri indietro non avrebbe fatto molta differenza.
L'assenza di vento rende la permanenza più facile, ma comunque ad un certo punto il freddo comincia a farsi sentire. Cerco di muovermi e ogni tanto batto le mani sulle spalle come consigliatomi da Fabio per restare il più possibile ma alla fine torno in auto come previsto, non ha molto senso che io rimanga lì a far nulla, se l'aurora si dovesse intensificare lo vedrò da dietro il finestrino. In realtà dopo un po' mi sveglio di soprassalto accorgendomi che mi ero addormentato per un tempo indefinito, guardo fuori dal finestrino ma tutto sembra immutato. Accendo il motore per scaldare un po' l'abitacolo e ascoltare un po' di musica, poi ripiombo in una specie di dormiveglia che sarà interrotta solo da Fabio che per primo abbandona la battuta di "caccia", ne approfittiamo per il solito spuntino e the caldo.

Saranno forse le 8 di mattina quando anche gli altri ci raggiungono. — Portaci alla laguna glaciale— mi dice Giuseppe dai sedili posteriori. Svegliarsi e cominciare contestualmente a guidare è una di quelle cose che in genere andrebbe evitata, ma in questo caso si tratta di neanche cinque minuti e già siamo sulla spiaggia della laguna di Jokulsarlon, dove dei grossi blocchi di ghiaccio dalle forme stravaganti si adagiano sulla sabbia nera riflettendo la luce radente del sole che sorge. Il posto è già affollato da una selva di fotografi portati lì da vari tour operators, tanto che è difficile anche trovare un posto libero sulla spiaggia per scattare foto senza immortalare sconosciuti; Giuseppe e Alessio si allontanano parecchio. Scendo anche io per esaminare i blocchi da vicino e respirare l'aria dell'alba. Poi me ne torno in auto per chiudere nuovamente gli occhi. Verrò svegliato più tardi da una sensazione a me tristemente nota: l'auto ondeggia scricchiolando sulla ghiaia. Per un attimo sale l'adrenalina e scatta l'allerta terremoto ma so di non essere in pericolo, a meno di eruzioni correlate. Apro gli occhi e d'istinto porto la mano sulla action-cam cosciente del fatto che non farò mai in tempo ad accenderla. Ed infatti il fuoristrada ritrova il suo equilibrio, poi vedo Giuseppe davanti al parabrezza che ride con la macchina fotografica in mano e gli altri attorno all'auto, era solo uno scherzo. — Credevo fosse il terremoto —, gli dico, — Lo so... ho riconosciuto quello sguardo — mi risponde Giuseppe che nel 2009 era ritornato in paese per supportare i genitori ed i cittadini in quel periodo difficile.
Finalmente andiamo a dormire. Passiamo la maggior parte della giornata alla laguna glaciale nel tentativo di "catturare" qualche foca. La luce rimarrà buona per un bel po' ed il vento non è eccessivo, le previsioni però parlano di un generale peggioramento e sono attesi venti forti o anche burrasca. Per il tramonto ci sono in programma delle foto ai cavalli vicino agli alloggi, mi faccio quindi lasciare alla guest house e ne approfitto per usare il Wi-Fi in relax.
Per la sera sono previste grandi cose: cena al ristorante del posto. Essendo a meno di cento metri dalla guest house ci arriviamo a piedi, senza riuscire a vedere bene neanche dove mettiamo i piedi data lo totale assenza di illuminazione pubblica. Sono le 21:30 e le cucine sono chiuse, oh merda... già mi ero abituato all'idea di un pasto dignitoso. Il ragazzo ci chiede se alloggiamo lì, avuta risposta positiva ci dice di attendere un attimo e va a chiedere al cuoco se è possibile mangiare qualcosa. Torna con buone notizie, però abbiamo una scelta limitata sulle portate. Anche se in diverse salse, in quattro scegliamo l'Arctic Char, una specie di trota locale. Giuseppe invece, apparentemente ittico-repellente, opta per delle classiche polpette.
Per cominciare ci portano delle birre che, a detta dello stesso cameriere, sono un po' calde. Poi uno strano intreccio con i piatti nonostante fossero occupati solo tre tavoli. Sappiamo già che pagheremo parecchio, ma almeno ci saremmo aspettati un servizio di tutto rispetto, ma non ci frega più di tanto viste le cene precedenti. Prendiamo anche il dolce ed infine il liquore tipico islandese, il Brennivín, letteralmente la morte nera, un distillato di patate aromatizzato al cumino dal nome decisamente altisonante ma che impallidirebbe di fronte ad un Centerba abruzzese.
Ci chiedono di pagare prima di terminare il nostro cicchetto. Il tempo peggiora rapidamente, questa notte niente aurora. Poco male, domani ci attende un lungo viaggio fino a Keflavik.

Neanche il cielo nuvoloso mi risparmia una levataccia all'alba. Ci rechiamo di nuovo alla laguna, sulla spiaggia. Il tempo è uno schifo, aspettiamo in auto che migliori un pochino. Ci sono già altre auto i cui occupanti sembrano avere le nostre stesse intenzioni. Smette di piovere. Scendono dall'auto soltanto Alessio e Giuseppe mentre Flavio e Fabio saltano, non si sentono ispirati. Subito dopo scendono anche tre tipi, sembrano gli italiani che alloggiavano nella nostra stessa guest-house. L'atteggiamento composto e quasi sostenuto che avevano in reception mentre facevamo colazione lascia spazio alla loro vera natura: avanzano sulla spiaggia ridendo e gridandosi delle cose, poi cominciano anche a lanciarsi della roba (sassi? ghiaccio? sabbia?), uno dei tre si avventa su uno dei blocchi di ghiaccio cercando di vandalizzarlo ma desiste quasi subito... deve essere estremamente pesante, non si è spostato di un centimetro. Più tardi la natura si vendicherà travolgendolo con un'onda lunga :-)
Contro ogni aspettativa Giuseppe torna dichiarandosi soddisfatto. Meglio non perdere altro tempo, ci rimettiamo in marcia. Nonostante le previsioni meteo terroristiche, l tempo migliora, sembra quasi una bella giornata, ma mai farsi illusioni in Islanda. Attraversiamo una pianura devastata in passato da un evento catastrofico (jökulhlaup) legato all'improvviso scioglimento di una parte del ghiacciaio a seguito di una eruzione del sottostante vulcano Grímsvötn nel 1996. Un relitto di un ponte in acciaio contorto dopo essere stato travolto da acqua e icebergs è stato posizionato come un monumento a bordo stada.
Abbiamo ancora mezzo serbatoio ma decidiamo, purtroppo, di fare rifornimento. Ci fermiamo alla prima stazione di servizio che incontriamo. Data l'ora è deserta, facciamo come di solito selezionando il pieno ma qualcosa va storto: la pompa non eroga una goccia di gasolio ma a Giuseppe arriva la notifica che la prepagata è stata depredata di 25000 corone islandesi, troppe per lasciar perdere e tentare al prossimo distributore. L'esercizio commerciale aprirà soltanto tra mezz'ora e non sappiamo neanche se abbia responsabilità di sorta sul distributore. Sulla pompa ci sono alcuni numeri di telefono ma le scritte sono tutte in islandese, fortunatamente il traduttore di google ci viene in soccorso. Sì, uno sembra proprio il numero da chiamare in caso di problemi. Come di consueto faccio io la telefonata, senza troppa convinzione a dire il vero, se ci fosse stato un ulteriore tasto oltre al rosso Chiudi e al verde Chiama, che ne so... un giallo intermedio, con scritto Chiama un po', avrei premuto quello. Squilla, e già è tanto visti i problemi avuti in passato, risponditore automatico... in islandese! Non seleziono nulla, sto per chiudere ma poi decido di attendere, spesso l'operazione predefinita è quella di passare la chiamata ad un operatore, ed infatti alla fine una voce maschile sostituisce quella registrata. Dopo aver esposto il problema mi viene chiesto dove ci troviamo... a saperlo... mi guardo intorno e cerco di leggere qualche insegna stradale e della stazione di servizio. Nonostante la pronuncia letterale l'operatore sembra aver capito, o forse fa finta, poi mi chiede in quale direzione stiamo viaggiando, temo ci voglia mandare in qualche ufficio, alla fine ci dice di attendere l'apertura dell'esercizio commerciale e chiedere lì. Fatica sprecata.
Venti minuti dopo spiego il problema alla ragazza dietro il bancone che ci rassicura sul fatto che succede spesso e che se non è stato erogato nulla il sistema alla fine riaccredita i soldi, però ci vorranno uno o due giorni. Giuseppe intanto chiama la sua banca per avere qualche rassicurazione in merito al doppio messaggio di addebito relativo alla cena della sera prima... fino ad ora era andato tutto troppo bene. Ci rimettiamo in viaggio e faremo rifornimento ad una stazione più avanti. Lungo il cammino notiamo una strana formazione rocciosa in lontananza, lo identificherò soltanto in seguito come il boulder Systrapi (63.775878N,-18.079221E), un enorme fungo di roccia sopravvissuto all'erosione della valle in cui si erge. Decidiamo di scendere dall'auto per cercare un punto adatto a fare una foto. Siamo in tre (io, il mio omonimo e Flavio) ad avanzare sulla neve e poi inerpicarci su delle stranissime colline strette qualche decina di metri e ripide come scale olandesi, calpestando l'erba folta e lunga sulla quale lasciamo delle profonde orme.
Raggiungiamo di nuovo Vik, dove pranziamo nello stesso fast-food dove avevamo preso il cheese-burger con l'uovo fritto. Questa volta optiamo per un piatto di agnello e patate, Giuseppe prende il gulash. Ne approfittiamo per recuperare una tappa saltata all'andata: Dyrhólaeyjarviti, il faro sul promontorio. Una lingua di terra attraversa le placide acque che anticipano la spiaggia nera di Vik che sbarra la strada all'oceano. Ci avviciniamo al promontorio, ma prima di salire su andiamo al belvedere al termine della strada. Il vento è di nuovo forte ed estenuante, da qui si vede la spiaggia nera ed in basso una famosa formazione rocciosa, ovviamente nera anch'essa, che emerge dalla sabbia come una torre in un deserto nero, come se fosse cresciuta lì, da un seme di basalto.
Mi arrampico sulla scogliera tra un nugolo di turisti provenienti da ogni parte del mondo con l'intento di fare qualche ripresa alle onde che si infrangono sulle rocce. Perdo la più grande: osservo le onde combinarsi, sembra in modo positivo, sospetto che arriverà qualche schizzo ma ancora non ho imparato a leggere il mare. Sento un forte scroscio e poi vedo una miriade di gocce d'acqua che mi sovrastano, sospese in aria Mi bagnerò? mi chiedo, un secondo dopo l'acqua ricade come un muro che crolla. Non sono sicuro ma ho fiducia, non mi sposto, e l'acqua si infrange sulla pietra lavica a qualche centimetro dal mio piede più avanzato. Attendo pazientemente una onda simile ma non arriverà più, un po' come sulla spiaggia vicino al cottage.
Fatto tutto quello che c'era da fare ci inerpichiamo col 4x4 sul promontorio lungo una ripida strada sterrata che porta fino al faro. Al termine della salita il passaggio è chiuso, bisognerà proseguire a piedi. Proprio in quell'istante arriva una nuova bufera di neve che però non smetterà prima di aver completamente mutato il territorio. Aspettiamo tempi migliori ma c'è nebbia e i faraglioni all'orizzonte, verso est, non si vedrebbero, quindi alla fine decidiamo di rinunciare e tornare giù. A dire il vero non si riesce a vedere neanche la strada, scendiamo con una certa cautela.

Il viaggio prosegue offrendoci paesaggi in cui la natura si impone prepotentemente sull'uomo. Ad un certo punto ci ritroviamo circondati da una distesa di sassi dal profilo dolcemente curvo come quello dei sassi di fiume ma molto grandi e ricoperti da un folto muschio cresciuto strato dopo strato per decenni. Sempre più spesso vediamo dei piccoli boschi spogli, ma in generale è molto raro incontrare alberi, ci avviciniamo a Selfoss, un insediamento medio (6500 abitanti circa) dove io e Fabio decidiamo di esorcizzare il clima rigido mangiando un gelato. Dopodiché ci dirigiamo verso la capitale a degnarla di una visita prima di lasciare l'isola. In realtà il nostro meschino obiettivo è quello di addentare l'hot dog "più buono del mondo".
Il traffico si intensifica man mano che ci avviciniamo a Reykjavík, compaiono infrastrutture compatibili con l'area urbana che racchiude i due terzi dell'intera popolazione islandese. Non ci vuole molto per raggiungere il chioschetto vicino al porto: lì una decina di grassi uccelli semidomestici attendono pazientemente l'elemosina degli avventori. Il chioschetto è davvero piccolo e dentro c'è un omone che ripete continuamente gli stessi gesti e pone sempre le stesse domande. Interrompo questa monotonia chiedendogli se (come avevo letto) gli hot dog fossero di agnello, ma la risposta arriva cantilenante come se anche quella fosse già pronta nelle FAQ: — è un mix di agnello, manzo e maiale — dice l'omone senza perdere il ritmo e senza distogliere lo sguardo dalla salsiccia mentre la cosparge di salse varie. Ad essere buono è buono, ne condividiamo qualcosa con i volatili, poi andiamo a fare un po' di foto semiserie vicino il monumento Solfar Sun Voyager e poi, mentre la luce del giorno ci abbandona, alla caratteristica chiesa Hallgrímskirkja, che sembra costituita dalle colonne di basalto viste sulla spiaggia di Vik. Giuseppe non scende, comincia ad accusare dei sintomi influenzali, in generale siamo tutti piuttosto stanchi.

Ci dirigiamo ormai nel buio verso l'ultimo dei nostri alloggi. L'appartamento è molto grande, abbiamo praticamente una camera a testa. Mangiamo di nuovo un abbondante piatto di pasta nella sala da pranzo mentre la neve cade e scivola sui vetri spinta dal vento. La stanchezza, i malanni e il cattivo tempo sembrano dirci che la vacanza è finita, ed infatti non resta poi molto al volo di ritorno, avevamo però riposto le nostre speranze per una aurora di addio in quell'ultima notte. Sul tardi il tempo migliora ma soltanto Alessio e Flavio escono per raggiungere il faro e fare delle foto, Giuseppe non si sente molto in forma ed io e Fabio scegliamo di riposare prima di affrontare una intera giornata di viaggio.
Avevo già dormito un po' quando mi sono dovuto alzare per andare in bagno, verso l'una ora locale, ma uscendo avverto una certa concitazione e capisco che è successo "qualcosa". Vedo Fabio di correre per il corridoio gridando — Presto! presto!! —, — Mi sto vestendo — dice Giuseppe, — Non c'è tempo non c'è tempo! — risponde Fabio sfrecciando ora in direzione opposta. Alessio aveva mandato un messaggio segnalando l'apparire dell'aurora. Mi vesto di corsa, vedo Giuseppe con la macchina fotografica affrettarsi verso l'uscita, — Dov'è Fabio? — mi chiede Giuseppe, — Credo sia già uscito — ed infatti la porta è socchiusa ed il freddo si infila nell'appartamento. Abbiamo il non trascurabile problema che la porta può essere aperta senza chiavi solo dall'interno e le chiavi sono ovviamente in mano ad Alessio e Flavio. Faccio uscire Giuseppe dopodiché prendo la scarpiera in metallo e la piazzo in modo che la porta non possa richiudersi neanche a forza.
L'aurora non è fortissima ma sicuramente migliore delle precedenti, ed è molto estesa, per guardarla tutta è necessario girare la testa. Mentre Giuseppe scatta le foto con lunga esposizione io osservo quello strano bagliore sperando che continui ad intensificarsi. Si sentono voci lontane, sono tutti fuori a guardare quel raro spettacolo. Poi d'un tratto arriva Fabio imprecando contro delle giapponesi che gli avevano reso la vita difficile perché mentre scattava gli avevano fatto delle foto con il flash tra uno schiamazzo ed uno starnazzo, eh sì perché Fabio era uscito in mutande,con addosso il piumino, il cappello e le scarpe, rubando la scena all'aurora boreale!

Una volta rientrati non abbiamo avuto molto tempo per dormire: alle 5:30 dovevamo stare in aereoporto. Una volta chiusi i bagagli con calci e pugni abbiamo caricato il suv e siamo partiti. scaricati tutti (bagagli compresi), nei pressi del terminal, io e Alessio ci dirigiamo verso l'ufficio dell'autonoleggio.
Attendiamo pazientemente che sui monitor appaia il nostro volo ma niente, intanto notiamo delle postazioni dove la gente sembra stampare qualcosa. Chiedo ad una delle hostess di terra se dobbiamo utilizzarli per stampare le carte di imbarco ed è così, grazie a questa domanda mi fa notare che il nostro volo sta per imbarcare, non siamo in ritardo ma dobbiamo muoverci. Stampiamo le carte, lasciamo i bagagli e andiamo di buon passo al gate. Salutiamo il suolo islandese e via verso Münich. Pranziamo un'ultima volta insieme, in un'area ristoro dell'aereporto di Monaco. Cosa mangiare in Germania? Mi verso una pinta di Weiss... questa sicuro la sanno fare e non devo guidare. Fabio davanti a me prende un qualcosa di commestibile dall'aspetto invitante simile ad un sugoso cosciotto di maiale ma dal nome impronunciabile, quasi quasi rimpiango la lingua islandese. Vorrei fare lo stesso abbinandoci delle patate ma la signorina dietro il bancone è sparita, mi giro intorno e vengo attirato da dei würstel bianchi come il latte. — Cosa sono quelli? — chiedo agli altri e nel frammentre arriva una commessa sulla sessantina che apre il barattolo per rabboccarlo, poi improvvisamente si gira e scoreggia qualcosa in tedesco rivolta a me. — Eh? —, — Ha chiesto quanti ne vuoi — mi spiega Flavio che mastica un po' di tedesco. Preso in contropiede, e mancando ancora la signorina del cosciotto, cedo ai salsicciotti albini ma non so ancora quanti quindi alzo le sopracciglia e faccio una smorfia che manifesta la mia indecisione di scarsi due secondi che però sono sufficienti a far spazientire la vecchia: fa una smorfia anche lei e si irrigidisce. Vaffanculo ne voglio due: — Two! — dico mostrando anche due dita, — Zwei !? — domanda lei digrignando i denti. Ma è normale che il personale che lavora in un aereporto internazionale non parli inglese? È una questione di principio — Two!! — ripeto facendole vedere meglio le dita. Qualcuno ha tradotto per me quello che era ovvio e la tizia ha messo le salsicce su un piatto, poi si è allontanata. Guardo dietro al bancone per reclamare le patate ma della signorina non c'è più traccia. Sento ancora la vecchia blaterare qualcosa e mi fa cenno di avvicinarmi alla cassa che sembra quasi pestare i piedi, — Kartoffeln! — dico io che guarda caso è l'unica parola tedesca che conosco a parte Ja e Fürer. Ma la tipa continua più energicamente a farmi cenno di avanzare, adesso forse li pesta davvero i piedi. Mi guardo dietro, in fila ci sono solo io, ma che diamine le prende? — Kartoffeln!!! — grido io perdendo la pazienza. La commessa si decide a venire dietro al bancone e darmi le mie dannate patate, ovviamente me le ha quasi tirate in faccia. Io intanto, ripensando a precedenti disavventure in cruccoland, comincio a chiedermi se è un caso o questi tedeschi (o almeno i bavaresi) mi diano spesso noie, mi sfogo tirando giù qualche santo poi pago e mi vado a sedere, toh! Stip'tli pe'lla dentiera!(1). Alla fine i würstel albini mi quasi disturbano e le patate sono delle normali patate lesse di merda... ma la birra é buona almeno.
Abbiamo il tempo per una chiacchierata e per un'ultima foto (qui in basso) che richiama simbolicamente l'aurora che tanto abbiamo cacciato e che ci si è concessa con molta difficoltà. Infine ci dividiamo di nuovo, io con il mio volo per Roma, loro in auto attraverso le Alpi, ma tutti con dei bellissimi ricordi che solo in parte sono trascritti sommariamente in questo diario di viaggio.

Alessio 29/06/2015

 

(1) frase in dialetto sandemetrano traducibile in "Tenga, li metta da parte per la dentiera"

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www.giuseppeulizio.it